The Danish Girl (2015)

Escrito por carlo el 24 de febrero de 2016

A volte accade. Ci sono film che hanno tutto per coinvolgere, appassionare, magari pure per restare nella storia del cinema e, invece, lo spettatore passa un paio d’ore in attesa di un clic che non arriva mai: l'ammirazione per la brillantezza formale dell'opera è indubbia, ma la scintilla di qualsiasi entusiasmo rimane ben spenta. Tom Hooper ritorna laddove 'Il discorso del re' era stata una scommessa vinta: un personaggio alla ricerca del vero se stesso sullo sfondo della tormentata Europa fra le due guerre. Se la vicenda di Giorgio VI raccontava in special modo il rapporto tra pubblico e privato in un momento comunque di difficoltà suprema, qui la lotta è molto più intima, poiché il pittore danese Einar Wegener la combatte con la propria natura, ovvero con Lili, la sua parte femminile che si risveglia forse per caso, ma poi conquista sempre più spazio mettendo in crisi la relazione con la moglie Gerda. Einar/Lili è vissuto veramente ed è stato uno dei primi a sottoporsi a un intervento per cambiare sesso, ma la sceneggiatura di Lucinda Coxon, basata su un romanzo di David Ebershoff, si concede tante di quelle libertà da non poter considerare la pellicola come biografica, bensì un delicato studio su di una persona che si sente prigioniera in un corpo che non riconosce più. Ecco allora l'importanza dell'immagine, sia riflessa, sia rappresentata: anche Gerda dipinge ed è nei suoi quadri che Lili prende davvero vita per la prima volta - non per nulla una delle prime battute della pittrice spiega che 'per un uomo è difficile essere osservato da una donna. Sottomettersi allo sguardo di una donna è destabilizzante' - mentre lungo tutto il film si susseguono i giochi di riflessi che consentono di guardarsi e/o essere guardati. Si tratta di passaggi impliciti, quando le immagini degli attori sono incorniciate dagli oggetti o dalle componenti architettoniche, oppure espliciti nel denudarsi di Einar davanti allo specchio nel magazzino teatrale e nello scambio di sguardi e gesti con la prostituta dietro al vetro (seppur si tratti di una scena che stride un po' con la misura presente altrove): in ogni caso una scelta stilistica vincente che sfrutta al meglio gli spazi chiusi che sono in netta maggioranza, visto che l’occhio può spaziare quasi solo nei titoli di testa e nella sequenza conclusiva. Un'ambientazione che deve una porzione significativa della sua validità alla scenografia di Michael Standish ed Eve Stewart a partire dalla casa in cui vive la coppia che è un'unica natura morta in cui lo scarso mobilio spicca contro i muri spogli, fatta apposta per la fotografia dai colori freddi con cui Danny Cohen disegna le inquadrature, con particolare riguardo a quelle dedicate alla Danimarca. A fare contrasto pensa la colonna sonora di Alexandre Desplat, discreta, ma dai toni prettamente romantici, a sottolineare che si sta raccontando una grande storia d'amore in cui una moglie si sforza di capire cosa stia accadendo al marito cercando di stargli vicino malgrado la complessità della situazione (vabbè, è la sezione più romanzata, ma è il cinema, bellezza!). Alle prese con un compito non facile, il cast nel suo complesso regala una prova di notevole efficacia, facendo spiccare l’esercizio di accurato mimetismo offerto da Redmayne (che danza sull'orlo della sovrarecitazione senza cascarvi dentro) e la solo all'apparenza fragile Gerda di Alice Vikander, che non si capisce per quale motivo sia stata candidata all'Oscar come non protagonista con, tra l’altro, un minutaggio superiore al collega di set. Come si vede, i pregi non sono pochi e di conseguenza si fa fatica a credere che non si rimanga lì a bocca aperta, eppure la narrazione scorre in superficie senza incidere e lasciando un'impressione complessiva di invincibile freddezza che dapprima si spera si dissolva con il passare dei minuti, ma alla quale lentamente ci si rassegna, con l'aggravante di un'ultima mezzora un po' tirata per le lunghe: a rimetterci è uno dei momenti cinematograficamente più belli, lo splendido controcampo finale sui visi dei due (ex) coniugi che ne suggella l’eterna vicinanza