The Hateful Eight (2015)

Scritto da carlo il 11 febbraio, 2016

Anche se è citazionista fin dal titolo (8½ di Fellini), il nuovo film di Quentin Tarantino va guardato – come del resto i suoi predecessori – per sè così da poter apprezzare appieno la capacità del regista di saper integrare gli spunti altrui nella propria visione cinematografica. Se la consistenza di quest’ultima fosse di poco valore, il patchwork di ispirazioni finirebbe per risolversi in uno sconclusionato accumulo invece di riuscire a tenere sulla corda lo spettatore per tre ore malgrado l’impianto quasi teatrale in cui le chiacchiere sono per lungo tratto più importanti dell’azione. Come nel lavoro precedente, il cineasta di Knoxville parte dal western e poi divaga: là c’erano la blaxploitation e il melodramma sudista, qui se l’ispirazione prende le mosse dal cinema horror ben presto ci si sposta nei territori del giallo e del noir in cui si dipana la mortale partita a scacchi (o, visti il tempo e i luoghi, a poker) tra i protagonisti. Lo stesso autore ha indicato ne ‘La cosa’ (da cui Morricone recupera un brano per una colonna sonora bella ma non invadente) l’influenza principale e certo c’è molto dei temi cari a Carpenter in un gruppo di persone che non si fidano l’una dell’altra costrette a convivere per una minaccia esterna in uno spazio ristretto, ma la sceneggiatura, oltre a richiamare l’abusato ‘Dieci piccoli indiani’ (di cui riprende – attenzione, spoiler! – alla lettera il titolo originale), mostra tratti che sarebbero piaciuti all’Hitchcock più claustrofobico, magari dalle parti di ‘Nodo alla gola’. Al maestro inglese strizza l’occhio inoltre la narrazione di Tarantino medesimo con la voce sopra, specie nella sequenza del caffè che ha funzione di contrappunto a uno dei momenti di più alta tensione, ovvero il riconoscibilissimo marchio di fabbrica tarantiniano che fa seguire uno scoppio di selvaggia violenza a una lunghissima tirata in crescendo pronunciata da Samuel L. Jackson. Mentre la struttura a capitoli non si può dire una novità, sebbene in questo caso siano delimitati da didascalie laddove altrove era presente una scansione più che altro logica, colpisce che nessuno ci lasci la pelle per novanta minuti più recupero, periodo impiegato ad accumulare un’ostilità pressoché palpabile che si scatena nella seconda metà del film in cui le ragioni e i torti si incrociano e si accavallano perché tutti hanno un segreto da nascondere. Siccome però, al dilà delle divagazioni, sempre di un western si tratta, l’inizio è dedicato a una diligenza che avanza nella coltre bianca che ricopre il Colorado (i panorami sono mozzafiato): il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) sta scortando alla forca Daisy (Jennifer Jason Leigh), ma per strada è costretto a raccattare il collega Warren (Jackson) e il sedicente sceriffo Mannix (Walton Goggins). Il maltempo li costringe a riparare in un trading post dove si sono rifugiati altri quattro figuri, tra i quali l’ex generale sudista Smithers (Bruce Dern) e un sussiegoso ometto che si dice di professione boia (Tim Roth evidenzia il richiamo al clima paranoico de ‘Le iene’). La circostanza che a gestire la locanda non sia la consueta padrona, ma il messicano Bob (Demian Bichir), fa nascere qualche dubbio a Warren, ma è una scelta obbligata adattarsi a trascorrere assieme una notte assai movimentata. L’intera vicenda si svolge infatti nel giro di ventiquattr’ore, incluso l’ampio flashback che occupa il quarto segmento consentendo di allacciare un po’ di fili; presenza un po’ ingombrante, ma capace di lasciare il fiato sospeso pur sapendo ciò che sta per accadere, oltre a regalare al bel faccino di Channing Tatum un ruolo di efferato sadismo. Se il racconto funziona, il merito va condiviso con le immagini che lo illustrano, grazie alla fotografia di Bob Richardson e al montaggio di Fred Raskin: se i bianchi esterni affascinano a partire dall’innevato crocifisso d’apertura, l’ambientazione in un’unica, grande stanza è realizzata con un utilizzo davvero ammirevole degli spazi e delle inquadrature – peccato solo che le riprese siano state effettuate in 70mm e nelle sale normali qualcosa vada perso. Alla parte visiva si possono ascrivere i migliori fra gli spunti dell’abituale umorismo più o meno urticante, dal capitombolo nella neve di Ruth e Warren al punching-ball in cui il bounty killer trasforma il viso della sua prigioniera, dalla porta senza chiavistello al cesso lontano nella tormenta, mentre un discorso particolare merita la lettera di Lincoln. In aggiunta al costituire il filo rosso che percorre la trama, la missiva sottolinea di nuovo il critico punto di vista del regista sulla storia del suo Paese, in cui ha notevole rilievo la questione del razzismo: la stolida rozzezza mentale dell’uomo bianco, specie dei sudisti Mannix e Smithers, rende quasi sopportabile la vendetta di Warren sul figlio di quest’ultimo, episodio di pura ferocia al netto dello humour nero che ne caratterizza lo svolgimento. Alle prese con personaggi dotati di un variegato livello di sgradevolezza, gli attori brillano per convinzione e affiatamento, sia tra i fedelissimi sia tra i nuovi arrivati: se Jackson domina la scena con il consueto tocco di gigioneria (per la prima volta ha il nome più alto in cartellone), va sottolineata almeno la prova di Jennifer Jason Leigh costretta a imbruttirsi nei panni di un personaggio che si va definendo nella sua centralità con il procedere della storia.