La grande scommessa (2015)

Scritto da carlo il 20 gennaio, 2016

Quali siano state le conseguenze della crisi finanziaria innescatasi nel 2008 non ci limitiamo a saperlo, ma ne sentiamo, chi più chi meno, ancora gli effetti: i motivi all’origine del crollo restano però per la maggior parte avvolti in una fitta nebbia creata spesso e volentieri dall’utilizzo di qualche involuta formula di comodo per celare le colpe di un capitalismo privo di freni. Proprio di fare chiarezza sulle responsabilità, specie se inconfessabili, si incarica il film di Adam McKay che, assieme a Charles Randolph, ne ha tratto la sceneggiatura da un libro di Michael Lewis raccontando di come le maggiori banche, d’affari e non, abbiano costruito l’abnorme bolla immobiliare facendo i soldi sul nulla di mutui concessi senza alcun controllo solo per alimentare i prodotto che li includevano. ‘La grande scommessa’ azzarda la scomoda incombenza di mettere chi guarda di fronte a una verità che dà fastidio e, per farlo, si sforza di portare alla luce del sole ciò che si nasconde dietro agli astrusi tecnicismi che gli apprendisti stregoni della finanza utilizzano per non far capire quel che stanno trafficando: impervia impresa affrontata tenendo altissimo il numero dei giri e giocando il registro della commedia, seppur acida, con una tale efficacia da riuscire a non annoiare in nemmeno per un minuto delle oltre due ore di durata. Il merito va innanzitutto a una scrittura serrata e a una serie di trovate che insaporiscono il piatto rendendolo estremamente gustoso: il racconto arguto fatto dalla voce sopra di Jared (Ryan Gosling), i personaggi che dialogano di tanto in tanto con lo spettatore, le excusationes non petitae dei ‘non è andata proprio così’ riguardo ai passaggi più romanzati, le figure reali ed esterne alla trama che chiariscono i concetti davvero ostici (la prima scelta era Scarlett Johanson, ma Margot Robbie immersa nella schiuma che spiega i CDO suggerisce l’inevitabile strizzata d’occhio a un altro film di cannibali come ‘The wolf of Wall Street’). Combinando le varie situazioni, l’opera viene ad avere un suo ben preciso ritmo interno, per il quale si dimostra fondamentale il brillante montaggio di Hank Corwin che aiuta non poco nell’intarsio dei tre o quattro filoni in cui si sviluppa la narrazione. Seguendo l’intuizione di Michael, un analista finanziario di un marginale fondo californiano (Christian Bale), alcuni suoi colleghi di piccolo o medio calibro decidono, senza essere in contatto gli uni con gli altri, che il castello di carte sta per crollare e vale la pena di scommetterci contro: paragonandoli all’ottusa avidità del sistema bancario, McKay riesce a far parteggiare per questi non-eroi per nulla specchiati prima di rimettere il tutto nella corretta prospettiva. Se il personaggio di Bale è al limite dell’autismo, tra matematica e batteria death metal, l’interesse di Jared è rivolto in esclusiva all’arricchimento laddove Charlie (John Magaro) e Jamie (Finn Wittrock) sono alla ricerca di un posto al sole: sul loro entusiasmo all’avverarsi delle previsioni getta acqua gelata Rickert (Brad Pitt) elencando le ripercussioni che devasteranno negli anni successivi l’economia reale dando in pratica il via al più cupo segmento finale. Se si considera che anche Mark (Steve Carell), la figura più tormentata e a suo modo idealistica, alla fine cede al guadagno, appare evidente che di buoni, in una vicenda simile, non ce ne sono (e neppure ce ne possono essere): del resto, se chi deve controllare è cieco (Standard & Poor’s rappresentata da Georgia Hale/Melissa Leo) o di facili costumi (la funzionaria della SEC), risulta fin troppo facile il compito di coloro che desiderano giocarebarando. Unito alle qualità prettamente cinematografiche, il sontuoso cast contribuisce a rendere appetibile la pellicola: al fianco dei nomi già citati – Gosling ha interrotto apposta il sabbatico mentre Pitt è tra i produttori – non vanno perlomeno dimenticati Marisa Tomei nei panni della moglie di Mark (molto bella l’idea del dialogo fuori fase tra i due) e Jeremy Strong in quella del suo esperto matematico. La brillantezza e i sorrisi, in prevalenza amari, non riescono peraltro a nascondere la profonda tristezza che il film sprigiona, accentuata dalla conclusiva consapevolezza che nessuno ha pagato davvero (a parte il contribuente) e, soprattutto, ben poco è cambiato: ripensare alla storia raccontata da McKay in giorni in cui a scricchiolare è il mercato petrolifero fa correre più di un brivido lungo la schiena.