Lo chiamavano Jeeg Robot (2016)

Scritto da carlo il 29 aprile, 2016

Come molti esordi, non solo sul grande schermo, il primo lungometraggio di Gabriele Mainetti – quarantenne romano con un passato d’interprete in prodotti televisivi – saccheggia a piene mani l’immaginario infantile e adolescenziale del regista, ma la rielaborazione degli spunti che ne derivano è tutto meno che banale tanto da sfociare in un curioso film d’azione che mischia Gomorra e Gotham City mantenendosi in brillante equilibrio anche là dove parrebbe impossibile. Enzo è un delinquente di mezza tacca con una predilezione per il porno: un bagno radioattivo lo dota di superpoteri, ma non lo smuove da una certa misantropia. La scossa arriva dal doversi in qualche modo occupare della bambina non cresciuta Alessia che ha la fissa dei cartoni animati giapponesi e dal contrasto con la banda dello Zingaro che vuole prendere il controllo di Tor Bella Monaca sfidando i rischi di uno scontro con le propaggini della camorra. Eroe quantomai riluttante, Enzo accetta di porsi al centro della scena solo in un finale che lascia un po’ di amaro in bocca apparendo in parte un corpo estraneo in un lavoro che trova altrove i suoi momenti migliori: assai più efficace risulta l’osservazione ravvicinata dei personaggi e del vuoto pneumatico delle loro esistenze in quella sorta di non luogo che è l’anonima periferia romana, dove per sognare non resta altro che un luna-park male in arnese (un tocco di Fellini non stona mai). Peraltro ciò non significa che ci sia un desiderio di fotografare l’esistente, vista l’accentuata caratterizzazione di situazioni e figure in una vicenda percorsa da una violenza morbosamente endemica che si esplicita all’improvviso in scoppi dagli inequivocabili tratti tarantiniani: la sceneggiatura di Nicola Guaglianone procede con bella scioltezza, perdendosi solo quando si deve allontanare da tale tracciato, vedi la conclusione or ora citata, mentre sui dialoghi si poteva fare di meglio. Simili caratteristiche chiariscono che non si tratta di un’avventura di supereroi all’amatriciana, come potrebbero far pensare molte presentazioni, ed è preferibile non portarci i bambini: le scene esplicite non mancano e il (quasi) puro intrattenimento che deriva dalle due ore scarse di visione è comunque riservato a un pubblico adulto. Benché coinvolto, è difficile che lo spettatore riesca a evitare il gioco a rimpiattino con le citazioni, non tanto quelle riferite agli eroi con vari gradi di mascheramento facenti capo a Marvel e dintorni (non pare però un caso che le più evidenti siano per i tormentati alla stregua di Batman e Mad Max), ma grazie a un sistema di riferimenti che strilla ‘anni Ottanta’ a pieni polmoni. Dal decennio che ha visto crescere il regista ecco allora i richiami alla serie di cui al titolo e consimili mischiati a una volgarità da televisione che si incarna soprattutto nello Zingaro, con la sua comparsata a ‘Buona domenica’ e le sue reinterpretazioni ad alto contenuto trash di vecchie hit di pessimo gusto (avevo rimosso Un’Emozione Da Poco e adesso chi se la scorda?). Nei suoi panni, Luca Marinelli dà vita con bravura a un perfido che riecheggia il Joker e funziona proprio andando sopra le righe: l’antitesi, perfino caratteriale, di un protagonista introverso e vagamente stordito del quale Santamaria sa rendere con efficacia gli impacci nel suo nuovo ruolo, oltre che nella vita e nel rapporto con l’immatura Alessia ben interpretata dall’esordiente Ilenia Pastorelli - una che, tanto per chiudere il cerchio, viene dal Grande Fratello. I tre attori hanno vinto un David che pare davvero meritato, sebbene il romanesco biascicato faccia a volte perdere alcune battute, e lo stesso vale per Mainetti, che ha inoltre composto la colonna sonora originale, perché firma un’opera che viaggia fuori dai consueti schemi del cinema nazionale, puntando alle viscere invece che al cervello e riuscendo a vincere la scommessa là dove altri - seppur plurideorati – sono stati più o meno gloriosamente sconfitti.